I fenomeni migratori: alla ricerca di una visione obiettiva e documentata
Il tema delle migrazioni necessita di una lettura complessa che coinvolge diversi saperi, dalla storia dell’uomo all’antropologia, dalla paleontologia al diritto. Ed è stato proprio questo l’approccio che ha caratterizzato il Forum “Sguardi scientifici sulle migrazioni”, organizzato da Fondazione IBSA in collaborazione con Giovanni Pellegri, Responsabile de L’ideatorio dell’Università della Svizzera italiana, e Telmo Pievani, Professore di Filosofia delle Scienze Biologiche dell’Università di Padova.
Per un attimo si è accantonata la stretta attualità per affrontare una prospettiva più ampia. Con l’aiuto dei nove relatori presenti, specializzati in ambiti diversi del sapere, si è cercato di allargare la drammatica visione del barcone stracolmo di gente e di inserirla in un dibattito che potesse interrogare ciascuno di noi su temi come quelli delle frontiere e delle soglie, delle identità, della multiculturalità, della cittadinanza e della solidarietà.
Al centro dei lavori non c’erano gli accordi internazionali e le politiche europee, ma la riflessione che ogni cittadino dovrebbe fare dinanzi all’evidenza che noi umani siamo migranti da sempre.
Lo spostamento fisico è infatti un adattamento umano antichissimo, per far fronte ai cambiamenti ambientali e soprattutto climatici (in fondo, è quello che sta accadendo anche oggi): da due milioni di anni le popolazioni umane fuoriescono dal continente d’origine, l’Africa, e migrano in ogni dove, diversificandosi.
Il Forum, senza indulgere in inutili sentimentalismi ma nemmeno assuefarsi al dramma di milioni di persone, ha provato a riflettere sul tema delle migrazioni, nella consapevolezza che esso porta con sé non solo visioni scientifiche, politiche e storiche, ma soprattutto i temi più complessi e contraddittori della nostra umanità: l’apparente sicurezza della nostra vita e l’evidente sua vulnerabilità, l’accoglienza e il rifiuto della diversità, l’egoismo e la solidarietà, il conforto del noto e l’apertura all’ignoto, il “noi” e gli “altri da noi”, la dignità dell’essere umano e il suo disprezzo, l’impotenza delle nostre azioni e il cambiamento che ognuno di noi può introdurre.
Con la coscienza che questi temi hanno contraddistinto da sempre l’evoluzione della specie umana e delle sue culture e continueranno anche in futuro a essere al centro delle nostre vite.
Giovanni Pellegri – Responsabile de L’ideatorio, Università della Svizzera italiana, Lugano, Svizzera – Moderatore e membro del Comitato Scientifico del Forum
Spesso oggi quando pensiamo alle migrazioni pensiamo alle invasioni, pensiamo alle paure, a qualche cosa che nasce dalla pancia. Malgrado la percezione di una crisi senza precedenti, per l’Europa non è una situazione nuova. Nell’ultimo secolo abbiamo vissuto a più riprese danni ancora più gravi: come i 7 milioni di rifugiati della prima guerra mondiale, o i 60 milioni dopo la seconda, senza dimenticare la crisi dei rifugiati del Vietnam o quella del popolo armeno.
L’aspetto interessante, pedagogico, dello sguardo sulle migrazioni oggi è che, anzitutto, siamo messi in questione noi, con la nostra umanità: chi siamo, quale rapporto abbiamo tra l’accoglienza e il rifiuto, tra la solidarietà e la non solidarietà, tra le paure ancestrali e un’intelligenza dell’accoglienza. Dalle migrazioni possiamo imparare molto, proprio perché non sono un fatto recente ma un fatto che ha segnato la storia dell’umanità. Per guardare al futuro occorre anzitutto capire chi siamo.
Telmo Pievani – Professore di Filosofia delle Scienze Biologiche, Università di Padova, Italia – Moderatore, relatore e membro del Comitato Scientifico del Forum
Le cronache illustrano il fenomeno migratorio come se fosse un’emergenza del momento. In realtà, gli esseri umani migrano da due milioni di anni: prima dal continente africano verso l’esterno, a più riprese; poi in Africa e in Eurasia; quindi in Australia e nelle Americhe. Non ci siamo mai fermati e il Mediterraneo è da sempre un epicentro di questo comportamento adattativo umano. Causa principale delle migrazioni umane sono stati i cambiamenti climatici. Succede anche oggi: l’ONU prevede che entro il 2025 (tra sette anni) circa 50 milioni di persone saranno costrette a muoversi in seguito alla desertificazione indotta dall’agricoltura intensiva e dal cambiamento climatico. Sopratutto in Africa, da dove tutte le migrazioni umane partirono. Senza contare, oggi, guerre e discriminazioni.
Nulla di nuovo e nulla di inedito, quindi, e di certo nulla di sorprendente sul piano scientifico, ma se così tante persone non avranno il diritto di restare nella terra natia né saranno libere di migrare, le tensioni e i conflitti che destabilizzano, creano paure e allontanano la pace non potranno che aggravarsi. Se succederà, non potremo dire che non lo sapevamo.
Bernardino Fantini – Professore emerito di Storia della Medicina e della Sanità, Università di Ginevra, Svizzera
Le relazioni fra migrazioni ed epidemie sono state costanti attraverso tutta la storia dell’umanità. Molte delle grandi epidemie che hanno marcato la storia e le mentalità sono state legate nel passato a massicci spostamenti di popolazioni, a causa di migrazioni, guerre, scoperte geografiche: l’ arrivo della malaria in Europa, la peste nera alla fine del Medioevo, le epidemie di vaiolo nelle Americhe dopo Colombo e l’arrivo della sifilide in Europa, la febbre gialla alla fine del Settecento, le tragiche epidemie di colera e di tifo dell’Ottocento e, nel primo Novecento, la terribile pandemia di influenza spagnola alla fine della prima guerra mondiale.
Negli ultimi decenni, tuttavia, due fattori hanno modificato in profondità e, in un certo senso, rovesciato i legami storici fra migrazioni ed epidemie: la globalizzazione, che ha aumentato in modo esponenziale gli spostamenti di popolazione e la loro rapidità, e lo sviluppo della biomedicina, che ha fornito strumenti potenti per il controllo e la prevenzione dei fenomeni epidemici.
Nonostante i pericoli connessi a malattie emergenti, come Ebola o Zika, gli spostamenti di popolazioni e di merci dovuti al turismo di massa e al commercio internazionale comportano attualmente rischi di epidemie molto più elevati rispetto alle migrazioni dovute a guerre e povertà.
Gianluca Grossi – Fotografo, Bellinzona, Svizzera
Raccontare la guerra testardamente credendo che possa servire a qualcosa. Raccontare ciò che la guerra fa all’ essere umano e ciò che l’ essere umano è capace di fare dentro una guerra, nella convinzione che ciò aiuti a capirlo e a capirci. Raccontare la fuga dai conflitti. Con l’auspicio che ciò possa individuare punti di sovrapposizione fra la vita di chi è costretto ad andarsene e la vita di chi non deve farlo.
Raccontare i conflitti per inserirli in una narrazione capace di suggerire il tumultuoso, sincronico, accadere della realtà. Chiedersi, con ogni parola scritta e con ogni immagine realizzata, a che cosa serva questo lavoro, il lavoro del reporter.
Concludere che non serve a nulla. Che non serviamo a nulla. Se non a documentare l’inevitabile ripetitività di ciò che siamo capaci di farci: quindi ad aggiornare l’archivio della Storia. Con immagini e parole sono proposte le riflessioni (e le confessioni), i dubbi e qualche certezza di un “giornalista da terreno”. Confrontato con la realtà colta nel suo farsi e, dentro di essa, con le storie di migliaia di persone incontrate.
Mark Maslin – Professore di Climatologia, Dipartimento di Geografia, University College London, Londra, Regno Unito
Il numero totale degli sfollati in fuga dai conflitti mondiali ha raggiunto, nel 2016, il massimo storico di 65,6 milioni. La maggior parte fuggiva dai conflitti in corso in Siria, Afghanistan e Somalia.
Alcuni episodi specifici sono stati addirittura etichettati come “conflitti di natura climatica” e, nel 2007, l’ex Segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon ha definito la guerra in corso nel Darfur come una delle “prime guerre climatiche”.
Suggerire un unico nesso causale secondo cui il conflitto è determinato esclusivamente dal cambiamento climatico è un’ipotesi semplicistica. Si tratta di un assunto politico che ostacola la ricerca accademica, secondo la quale non vi è consenso unanime sul fatto che il cambiamento climatico sia o meno un fattore significativo nelle guerre e/o nelle migrazioni.
Il nostro lavoro sul conflitto e lo spopolamento in Africa orientale mette in discussione la semplice attribuzione delle cause al cambiamento climatico. Sulla base di dati dettagliati relativi agli ultimi cinquant’anni suggeriamo, invece, che i fattori più determinanti siano stati la rapida crescita demografica, la crescita economica ridotta o in calo e l’instabilità politica nel periodo di transizione post-coloniale. A nostro avviso un governo onesto e stabile può prevenire il cambiamento climatico che influisce sull’aggravarsi dei conflitti e sugli spostamenti di massa.
Anja Klug – Responsabile dell’Ufficio per la Svizzera e il Liechtenstein dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), Svizzera
Nell’ultimo decennio la popolazione mondiale degli sfollati è aumentata in modo costante. Nel 2017 ha raggiunto un nuovo picco, in seguito al peggioramento della situazione in diversi paesi e al protrarsi dei conflitti in varie aree interessate da forte sfollamento. Nel mio intervento ho esaminato in modo approfondito i dati più recenti, presentando una panoramica delle tendenze degli spostamenti globali, compresi quelli interni e transfrontalieri. Ho analizzato, a mo’ di esempio, lo sfollamento causato dal conflitto siriano, con il suo impatto sui paesi di quell’area e sull’Europa. Ho trattato brevemente del movimento “misto” che attraverso la rotta del Mediterraneo centrale conduce in Europa, valutando l’adeguatezza delle risposte adottate dall’Unione europea e dai suoi Stati membri.
Infine, ho analizzato brevemente l’accordo Global Compact on Refugees, di recente adozione, e il suo potenziale per il progresso dell’attuale regime di protezione internazionale.
Federico Rampini – giornalista e scrittore, corrispondente de “La Repubblica” da New York
È una carestia così spaventosa, che fa crollare di un quarto la popolazione di una nazione. Non è una storia che viene dall’Africa subsahariana, né c’entrano guerre civili o genocidi etnici. È la Grande Fame che colpisce l’Irlanda a partire dal 1845. Il bilancio di quella carestia fu terribile: fra il 1845 e il 1849 un milione di irlandesi morì di fame; un altro milione cercò scampo nell’emigrazione.
Paradossalmente, il caso dell’emigrazione irlandese in molte parti del mondo anglosassone è diventata una “success-story”, con protagonisti la famiglia Kennedy, l’industriale dell’automobile Henry Ford, il regista John Ford, il mago dei cartoni animati Walt Disney.
E poi va considerata con attenzione la lettura che ne fece il profeta del comunismo, Karl Marx. I giudizi di Marx sulla “questione irlandese” sono esemplari: non demonizza gli immigrati, ma spiega che il loro arrivo danneggia gli operai inglesi. Questo mette in discussione i dogmi del “politically correct”.
Va ricordata la differenza tra la ricchezza di una nazione misurata dal suo Pil, e il benessere economico dei singoli cittadini misurato dai rispettivi redditi. Se cresce la popolazione – per esempio con l’afflusso di stranieri – la ricchezza nazionale cresce. Ma ciò non significa affatto che i singoli cittadini stiano meglio. Ci può essere una crescita generale del paese, all’interno del quale alcune categorie s’impoveriscono.
Daria Pezzoli-Olgiati – Professore di Scienze e Storia delle Religioni, Ludwig-Maximilians-Universität, Monaco di Baviera, Germania
Il fenomeno migratorio a cui stiamo assistendo è documentato da molte immagini stereotipate che circolano sui giornali, nelle trasmissioni televisive, su internet e sui social media. Partendo da una lettura in chiave di studi culturali, si propongono sguardi alternativi che interpellano gli spettatori. Considerando diversi formati nella produzione audiovisiva, ho confrontato tra loro prospettive differenti: quelle di chi accoglie e di chi è in fuga, quelle che mirano a creare una distanza e quelle che stimolano empatia. Ho anche evidenziato le diverse strategie di rappresentazione e discussi i processi di interpretazioni che da esse scaturiscono.
La tesi di fondo è che le immagini non solo documentano una realtà ma la formano e caratterizzano, trasmettendo in modo implicito o esplicito valori e ideologie. In questo campo di ricerca interdisciplinare, aspetti ermeneutici, antropologici ed etici si intrecciano fra loro in un intricato labirinto di sguardi e politiche.
Guido Alfani – Professore di Storia Economica, Università Bocconi, Milano, Italia
Le migrazioni sono una costante della storia dell’umanità; tuttavia, alcune specifiche fasi storiche sono caratterizzate da processi di spostamento e rimescolamento delle popolazioni umane particolarmente intensi.
Benché le migrazioni internazionali abbiano caratteristiche molto complesse e i fattori causali all’ opera siano di volta in volta differenti, è tuttavia chiaro che le variabili di tipo demografico svolgono un ruolo particolarmente importante: più frequentemente di tipo “push” (espulsivo), come durante la transizione demografica del XIX secolo che determinò enormi flussi migratori in uscita dall’Europa, ma talvolta di tipo “pull” (attrattivo), come all’indomani della scoperta delle Americhe. In tale circostanza, le opportunità offerte dal Nuovo Mondo e la contestuale catastrofe demografica delle popolazioni indigene incentivarono un consistente e duraturo flusso di popolazione in ingresso, in parte forzoso (si pensi all’importazione di schiavi africani nelle colonie).
L’esperienza storica fornisce un’utile chiave di lettura dei flussi migratori contemporanei, nella misura in cui essi sono almeno in parte determinati da differenziali di crescita demografica tra diverse aree del mondo e dalla percezione di una radicale differenza di prospettive e di condizioni di vita.
Federica De Rossa Gisimundo – Professore assistente di Diritto dell’Economia
Non si può affermare che esista un diritto alla migrazione, ma esiste un diritto della migrazione dove è indispensabile che vengano garantiti i diritti fondamentali dei cittadini. Il diritto della migrazione contiene sostanzialmente strumenti limitativi delle libertà dei migranti (divieti di entrata, obblighi a collaborare in vista del proprio rimpatrio) ma anche tutta una serie di libertà (la libertà di esercitare un’attività economica quando si è stati ammessi nel Paese, il diritto di ricevere delle prestazioni sociali). Quindi il diritto della migrazione non vuol dire solo regolazione della migrazione ma anche conferimento di garanzie. Tracciando le principali tappe che hanno segnato l’evoluzione del diritto svizzero della migrazione, mi sono chiesta dove abbia origine la sua regolazione, se essa abbia sempre risposto ai medesimi principi e se il fattore della democrazia diretta vi abbia da sempre svolto un ruolo. E’ emersa una politica oscillante tra impulsi istituzionali e iniziative democratiche, esigenze sociali e contingenze economiche, essenzialmente fondata sulla nozione di integrazione.
Pascal Mahon – Professore di Diritto Costituzionale Svizzero e Comparato, Università di Neuchâtel, Svizzera
Il concetto di integrazione è diventato il concetto chiave del diritto svizzero degli stranieri e del diritto svizzero della cittadinanza. La sua interpretazione è molto variegata nel tempo: all’inizio del Ventesimo secolo si parlava di incorporazione, si parlava di dare la cittadinanza a tutti gli stranieri nati in Svizzera. In seguito si è abbandonata questa via, che era una via generosa, e si è arrivati a un concetto un po’ diverso dove l’integrazione è la prima tappa di un percorso che poi porta alla naturalizzazione e alla cittadinanza. E quindi si è un po’ rovesciato il paradigma: prima uno deve essere integrato e poi può accedere alla cittadinanza.
La Svizzera ha optato per una suddivisione del diritto delle migrazioni in tre settori distinti (naturalizzazione, stranieri e asilo), concepiti in funzione di una politica di integrazione, dove l ‘integrazione costituisce la condizione indispensabile per ottenere l ‘inserimento nella società d’ accoglienza. Il concetto di integrazione è stato anche rafforzato, perché oggi si parla di “integrazione riuscita”. Ma cosa significa integrazione?
Igor Horvat – Attore di teatro
La letteratura ha sempre raccontato l’uomo, e quindi ha narrato anche di migrazioni, esodi, storie di allontanamenti e ritrovamenti. Sono storie che ci coinvolgono profondamente, che ci commuovono, che ci interrogano: sicuramente aiutano noi stessi a capirci meglio. Il rischio che attraverso queste narrazioni si possano nutrire degli stereotipi non è un rischio che corre la letteratura, piuttosto è un rischio che corriamo tutti noi, in quanto lettori. Gli stereotipi sono qualche cosa che ci portiamo dentro, un’eredità ingombrante con cui ci dobbiamo confrontare e con cui dobbiamo anche fare pace, probabilmente.