Sperimentata con successo alla Columbia University di New York una tecnica che permette di disattivare i nervi responsabili, almeno in parte, dell’aumento incontrollato della pressione sanguigna.
L’ipertensione arteriosa che resiste alle terapie farmacologiche e non risente dei cambiamenti dello stile di vita (come la riduzione del sale, la perdita di peso e l’attività fisica), costituisce un serio problema soprattutto per gli anziani, perché il cuore, nel tempo, si affatica e può ammalarsi. L’ipertensione aumenta, inoltre, il rischio di ictus e di danni renali.
Spesso – si è scoperto – questo tipo di squilibrio è causato da un’iperattività dei nervi che regolano il funzionamento delle arterie renali, i quali, sovrastimolati, provocano un innalzamento pressorio molto difficile da controllare. Per questo negli ultimi anni si sono moltiplicati i tentativi di intervento proprio su questi nervi, attraverso dispositivi di vario tipo, o tecniche chirurgiche (ancora per lo più sperimentali). Ma naturalmente per frenare l’ipertensione vengono utilizzati anche (e soprattutto) i farmaci, che agiscono in diversi modi, dilatando i vasi sanguigni, rimuovendo i liquidi in eccesso o bloccando gli ormoni che aumentano la pressione (nessuno di questi medicinali mira direttamente, invece, ai nervi renali).
Ma presto potrebbe essere proposto ai pazienti anche un nuovo approccio mininvasivo, chiamato “ultrasound Renal Denervation” (uRDN), grazie al quale i nervi responsabili dell’aumento della pressione vengono disattivati in modo molto preciso, inserendo un particolare catetere all’interno dei vasi sanguigni delle zone limitrofe, ed emettendo poi ultrasuoni con una frequenza e un’”intensità” in grado di distruggere i nervi stessi. Il catetere viene introdotto in una vena della gamba o del polso, e poi fatto risalire fino alla zona dei reni. Questo tipo di intervento non richiede l’anestesia generale e sembra sicuro ed efficace, anche se l’opportunità di utilizzarlo va strettamente valutata caso per caso.
Studi negli USA e in Europa
L’uRDN, allo studio da qualche anno, è stato sperimentato con buoni risultati su circa 500 pazienti dai cardiologi interventisti della Columbia University di New York e da altri esperti di alcuni centri europei. I risultati dello studio (diviso in tre “rami”) sono poi stati pubblicati sulla rivista scientifica JAMA Cardiology. Il buon esito della sperimentazione ha convinto i ricercatori a chiedere alla Food and Drug Administration (l’ente che, negli Stati Uniti si occupa del controllo dei farmaci e delle altre terapie mediche) le autorizzazioni necessarie all’impiego degli strumenti dedicati. La FDA si esprimerà definitivamente su questa terapia nei prossimi mesi.
Valori pressori "giusti"
Quali risultati sono stati ottenuti? A due mesi di distanza dall’intervento, la pressione di chi era stato trattato con uRDN era scesa mediamente di oltre 8,5 millimetri di mercurio (l’unità di misura per valutare la pressione), mentre quella del gruppo di controllo (cioè dei pazienti che erano stati sottoposti alla medesima procedura, ma senza la reale ablazione dei nervi) era calata di 2,9.
Queste differenze si sono rivelate molto simili nei diversi rami dello studio, che hanno incluso pazienti con stadi diversi di ipertensione. Inoltre, il numero di pazienti che sono rientrati nei limiti pressori considerati non pericolosi è stato doppio nel gruppo sottoposto all’intervento, rispetto a quello di controllo. Quando i farmaci hanno un effetto limitato, e il cuore rischia di affaticarsi troppo - sostengono i ricercatori - potrebbe quindi valere la pena di ricorrere anche a questa ablazione, se le agenzie regolatorie (a cominciare dalla FDA) daranno il via libera.