Risultati a sorpresa da uno studio eseguito in 25 ospedali statunitensi e britannici. Alcuni pazienti rimasti in arresto cardiaco anche per un’ora hanno mostrato segni di attività cerebrale mentre i medici tentavano di rianimarli.
Che cosa accade al cervello di una persona che va in arresto cardiaco?
L’interrogativo si pone da sempre, perché le fasi durante le quali si passa dall’interruzione della funzionalità cardiaca alla morte cerebrale sono ancora oggi in parte misteriose, e non del tutto decifrate. Finora si è sempre ritenuto che un organismo rimasto senza sangue circolante, per cinque/dieci minuti al massimo, andasse incontro irrimediabilmente alla morte cerebrale, ma uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Resuscitation suggerisce che invece, in alcuni casi, il tempo necessario per giungere dall’arresto cardiaco alla cessazione di qualunque attività del cervello può essere più lungo.
La ricerca, chiamata AWAreness during REsuscitation (AWARE)-II, è stata condotta in 25 centri britannici e statunitensi, e coordinata dai rianimatori della Grossman School of Medicine della New York University. Gli studiosi hanno puntato l’attenzione su 567 pazienti che avevano subìto un arresto cardiaco ed erano stati sottoposti a una rianimazione cardiopolmonare (in sigla, CPR) effettuata con procedure identiche (compressioni toraciche, ventilazioni e uso del defibrillatore), proprio per raccogliere dati omogenei.
Meno del 10% di loro era sopravvissuto ma, tra questi, circa quattro su dieci hanno riferito di ricordare lucidamente molto più di quanto i medici si aspettassero, nonostante le normali strumentazioni non avessero rilevato alcuna attività cerebrale. Inoltre, alcuni di questi pazienti erano stati sottoposti a indagini più accurate anche durante la CPR e, tra costoro, il 40% mostrava tracciati dell’elettroencefalogramma con vari picchi delle onde gamma, delta, theta e alfa, che descrivono le funzioni cerebrali superiori, fino a un’ora dopo l’arresto cardiaco, e quindi ben oltre i canonici dieci minuti, ritenuti il tempo massimo sopportabile dal cervello senza irrorazione sanguigna.
Per quanto riguarda le testimonianze dirette, anche questi pazienti, come altri in precedenza, hanno descritto uno stato di coscienza che non ha nulla a che vedere con le allucinazioni, i sogni, le distorsioni visive o uno stato di coscienza momentanea, indotto a volte dalla CPR. Piuttosto, avevano capito ciò che stava accadendo durante la rianimazione in modo razionale, e non avevano provato dolore, ma solo una sensazione di distacco dal proprio corpo.
Secondo i ricercatori, ciò che accade potrebbe essere determinato da una perdita momentanea di funzionamento dei sistemi inibitori presenti nel cervello (chiamata, appunto, disinibizione), cioè qualcosa di analogo a quello che avviene quando si assumono sostanze, come quelle psichedeliche, che provocano dissociazioni. In assenza di sistemi di filtrazione, il cervello accede a una visione della realtà diversa, più ampia, che permette anche l’accesso a memorie molto remote, per esempio dell’infanzia, rimaste sepolte, ma sempre presenti, oppure a sensazioni spirituali o simili a sogni. Abbiamo parlato nello specifico di che cosa accade nel cervello quando si passa dalla vita alla morte in uno nostro recente articolo.
Cambiare le regole per i trapianti?
La scoperta di questa particolarissima attività cerebrale prolungata, in una minoranza di persone, per almeno un’ora dopo l’arresto cardiaco, merita ulteriori approfondimenti, anche in funzione della dichiarazione di morte cerebrale, e delle tempistiche normalmente adottate per espiantare gli organi per un trapianto. Inoltre, le nuove informazioni potrebbero essere utilizzate nei protocolli di CRP, per prevenire danni ulteriori al cervello. La coscienza dell’essere umano non smette di stupire, e in tutta evidenza c’è ancora molto da indagare.