Da tempo è noto che un numero ristretto di malati oncologici reagisce in modo straordinariamente efficace alle terapie. Queste persone, definite exceptional responders, spesso con tumori metastatici, hanno una risposta ai farmaci che dura in media almeno il triplo rispetto a quella dei pazienti normali e traggono beneficio anche da medicinali che “funzionano” solo in meno del 10% dei pazienti.
Il fenomeno, segnalato da anni, appariva in modo sporadico con la chemioterapia, ma è diventato più evidente da quando sono stati introdotti i farmaci immunoterapici, perché con questi medicinali è più facile, per certi aspetti, misurare i risultati e accade, talvolta, che la risposta sia particolarmente forte e porti alla sconfitta definitiva del tumore.
Dal 2014 un grande progetto patrocinato dal National Cancer Institute statunitense, il NCI’s Exceptional Responders Initiative, cerca di scoprire i segreti di queste persone, e finalmente iniziano ad arrivare i primi risultati. La rivista scientifica Cancer Cell ha infatti pubblicato i dati relativi a 111 pazienti oncologici di questo tipo, curati con terapie che andavano dalla classica chemioterapia all’immunoterapia e alla radioterapia.
Così gli esperti del National Cancer Institute hanno potuto cominciare a delineare alcuni aspetti caratteristici dei malati “eccezionali”.
Per ogni paziente gli oncologi hanno analizzato, in primo luogo, l’assetto genetico del tumore e del microambiente che lo circondava, per capire se la risposta super-efficiente alle terapie fosse da attribuire a un certo tipo di DNA tumorale o all’ambiente stesso (cioè ai fenomeni chiamati epigenetici), o, ancora, ad altri elementi.
L’analisi delle biopsie e di altri campioni biologici ha mostrato che, per poco meno di un quarto degli “exceptional responders”, nelle cellule cancerose erano presenti mutazioni genetiche che rendevano più vulnerabile il tumore alle terapie, oppure risultavano differenti i meccanismi di comunicazione fra le cellule stesse (il cosiddetto signaling). Infine, in questi malati il sistema immunitario è risultato mediamente più efficiente.
Per quanto riguarda le mutazioni genetiche, i ricercatori hanno individuato, in particolare, due pazienti che presentavano varianti del gene BRCA 1 o del gene BRCA 2 (associate entrambe a forme ereditarie e pericolose di tumore mammario, ma rare nelle forme di cancro che avevano colpito i due pazienti), e dimostrato che tali mutazioni, in quelle persone, impedivano alle cellule tumorali di riparare il DNA lesionato dai farmaci: per questo la terapia aveva avuto effetti molto più potenti del normale.
Anche in altri due pazienti, colpiti da un tumore del cervello chiamato glioblastoma, la sovrapposizione di due rare mutazioni genetiche aveva potenziato gli effetti di un chemioterapico, la temozolomide.
In altri exceptional responder, invece, era ben visibile un coinvolgimento particolare dei linfociti B (quelli che portano poi alla produzione degli anticorpi).
I risultati di questo studio andranno confermati da ricerche più ampie, con possibili ricadute nel percorso diagnostico (si potrebbero andare a cercare, per esempio, nei singoli pazienti le mutazioni o le altre caratteristiche che rendono più deboli i tumori), e anche in quello terapeutico.
I ricercatori ipotizzano di progettare, cioè, farmaci specifici da affiancare a quelli tradizionali (nel caso della temozolomide, inibitori di quegli stessi meccanismi bloccati dalle due alterazioni genetiche), e tentare di riprodurre nei pazienti normali le condizioni che rendono gli altri eccezionali.
«Come ricercatori clinici, abbiamo molto da imparare dagli exceptional responders e loro hanno molto da insegnarci – ha detto Percy Ivy, coautrice della ricerca. – Un’approfondita conoscenza dei modi in cui rispondono al tumore ci aiuterà ad avvicinarci sempre più al nostro obiettivo, che è quello dell’oncologia di precisione».