Sull’educazione scolastica e il futuro delle giovani generazioni, Stefano Laffi ha idee molto critiche. E molto interessanti. In sostanza ci dice che noi – adulti, genitori e insegnanti – i bambini, i ragazzi, non li vediamo. Li “sovrascriviamo” secondo i nostri standard rigidi e prefissati.
E’ un errore prospettico molto grave, che ci porta a tralasciare due dati di realtà fondamentali. Il primo è che, da quasi vent’anni, viviamo in un nuovo secolo e in un nuovo millennio, e navighiamo tutti in acque inesplorate. Questo significa che, come genitori, non siamo più la misura dei nostri figli: oramai la nostra base esperienziale di adulti non è applicabile al nuovo scenario, semplicemente perché non è più replicabile in quest’epoca caratterizzata da cambiamenti fulminei e profondissimi.
E poi – e qui entra in gioco il secondo aspetto – ci siamo dimenticati che, da che mondo è mondo, gli adulti hanno sempre scommesso sulle giovani generazioni. Solo noi non lo stiamo più facendo. Come ci ricorda Laffi, il Novecento è stato un secolo fatto da idee e scoperte di giovani che avevano tra i 20 e i 30 anni. Einstein, quando ha scritto il celebre articolo in cui per la prima volta presentava la sua Teoria della Relatività, aveva 26 anni. E dagli anni Settanta in poi, chi ha creato le startup più innovative e di successo aveva tra i 18 ai 25 anni.
Oggi chi parla con un giovane sente spesso frasi come: “Non so cosa scegliere. Non so cosa farò: ho paura del futuro”. E’ qui che scatta il campanello di allarme e si impone una profonda riflessione: “Come è possibile, nel momento di massimo sviluppo, nell’età della potenza dell’eros, avere paura della realtà e del futuro? Ma come abbiamo potuto portare una generazione fino a quel punto? L’abbiamo tenuta in esilio, anziché affidarle compiti di realtà e responsabilità. Dobbiamo trovare dei varchi per far entrare i ragazzi. Se il mondo è saturo, museificato, non c’è posto, non entri”.
Occorre dunque un cambiamento radicale di paradigma. E questa rivoluzione epocale, che ci coinvolge tutti, è una sfida che si vince – o si perde – sul terreno dell’educazione.
Secondo Laffi, i nostri ragazzi non devono più essere formati come allievi, con compiti prescritti, ma come pionieri: occorre spostare in avanti la frontiera della conoscenza. Si deve anche “imparare a disimparare” come diceva Gregory Bateson. Un giovane devi essere formato con domande, non allenato a rispondere come si chiede a scuola. E queste domande devono essere legittime, ovvero senza risposte già scritte.
Le proposte di Laffi si saldano con le considerazioni sviluppate in questi ultimi anni da due importanti studiosi: lo storico Yuval Harari e il filosofo Edgar Morin.
Secondo Harari, nel mondo del ventunesimo secolo, l’ultima cosa che un insegnante deve dare ai suoi allievi è più informazione. Ne hanno già troppa. Invece abbiamo tutti bisogno, in primis i più giovani, di acquisire la capacità di dare un senso alle informazioni, di distinguere tra ciò che è importante e ciò che è poco rilevante e, soprattutto, di apprendere come combinare molte informazioni in un quadro generale del mondo.
Quindi, cosa dovremmo insegnare? Molti esperti consigliano di puntare sulle “quattro C”: pensiero critico, comunicazione, collaborazione e creatività. Per Harari tutto questo va benissimo, a patto che porti nella direzione di costruire menti e personalità molto flessibili: la cosa più importante è sviluppare l’intelligenza emotiva nei ragazzi e investire nell’equilibrio mentale delle persone, perché le sfide più difficili che tutti dovremo affrontare saranno di tipo psicologico.
E qui entra in gioco la visione di Morin, che nel suo “Manifesto per cambiare l’educazione” afferma: “Si può insegnare a sviluppare al meglio un’autonomia e, come direbbe Descartes, un metodo per dirigere bene la propria mente, che permetta di affrontare personalmente i problemi del vivere. Un’educazione rigenerata non saprebbe da sola cambiare la società. Ma potrebbe formare adulti più capaci di affrontare il loro destino, più capaci di far fiorire il loro vivere, più capaci di comprendere le complessità umane, storiche, sociali e planetarie, più capaci di riconoscere gli errori e le illusioni della conoscenza, più capaci di comprendersi gli uni con gli altri, più capaci di affrontare le incertezze, più capaci di affrontare le avventure della vita”.
Il nuovo compito della scuola è allora quello di insegnare ad affrontare i rischi e le incertezze. In tre parole, è quello di insegnare a vivere.