L’inquinamento atmosferico sembra avere un legame piuttosto stretto con la gravità del Covid-19.
Lo conferma uno studio della Emory University di Atlanta (Stati Uniti), pubblicato sulla rivista scientifica The Innovation (gruppo Cell).
I ricercatori hanno analizzato i principali inquinanti atmosferici urbani, tra cui le polveri sottili (in sigla, PM2.5), il biossido di azoto (NO2) e l’ozono (O3), in 3.076 contee degli Stati Uniti (sulle 3.142 totali) da gennaio a luglio, e hanno sovrapposto questi dati agli effetti del Covid-19 nella popolazione residente.
In particolare, hanno esaminato il tasso di mortalità (cioè il numero di decessi tra le persone a cui era stato diagnosticato il Covid-19) e anche il numero di morti per Covid-19 in rapporto alla popolazione.
Ebbene, fra gli inquinanti analizzati, il biossido di azoto ha mostrato la più forte correlazione con il numero di morti per Covid-19: secondo i ricercatori, un aumento di 4,6 parti per miliardo (ppb) di NO2 nell’aria è associabile a un aumento della mortalità dell’11,3% fra le persone colpite dal Covid-19, mentre il numero di morti per coronavirus rispetto alla popolazione sale del 16,2%.
Sul versante opposto, una riduzione di 4,6 ppb di NO2 nelle contee americane avrebbe potuto prevenire, secondo i ricercatori, 14.672 morti (sui 138.552 totali) fra coloro che erano risultati positivi al virus.
L’ossido di azoto, lo ricordiamo, viene prodotto da tutti i processi di combustione ad alta temperatura (impianti di riscaldamento, motori dei veicoli, combustioni industriali, e altro ancora), e provoca irritazione della mucosa dei bronchi, alterando in alcuni casi la funzionalità respiratoria e la reattività bronchiale (se l’esposizione a forti concentrazioni di NO2 è prolungata).
I ricercatori della Emory University hanno invece osservato un’associazione marginale fra l’esposizione alle polveri sottili PM2.5 e il tasso di mortalità delle persone colpite dal Covid, mentre non sono state trovate associazioni degne di nota con l’ozono.
“I risultati del nostro studio – scrivono i ricercatori sulla rivista The Innovation – invitano ad attivare azioni mirate di salute pubblica per proteggere la popolazione dal Covid-19 nelle regioni inquinate con livelli di NO2 storicamente elevati. La prosecuzione degli sforzi per ridurre le emissioni del traffico e altre forme di inquinamento atmosferico potrebbe diventare una componente importante per ridurre anche il rischio di mortalità da Covid-19”.
Questo studio, aggiungiamo noi, aiuta anche a spiegare perché zone fortemente inquinate, come l’area di Wuhan in Cina, o ampie aree della Pianura Padana in Italia, siano state fra le prime a far registrare numeri particolarmente alti di pazienti-Covid, con esiti anche fatali.
Sui rapporti fra inquinamento e Covid-19 è uscito anche un secondo studio, realizzato da ricercatori italiani (Università di Bari e Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) e russi (Università statale di Tomsk), e pubblicato sulla rivista Environmental Pollution.
I risultati sono analoghi a quelli della Emory University per quanto riguarda il senso generale, ma diversi nei dettagli: secondo questo studio, infatti, anche il PM2.5, oltre al biossido di azoto, avrebbe un ruolo significativo. I ricercatori hanno fatto ricorso all’intelligenza artificiale, confrontando le zone italiane a più elevato inquinamento con la mortalità. Così si sono resi conto che le emissioni di polveri sottili associate a industrie, aziende agricole e traffico stradale hanno un forte collegamento con la gravità della malattia, e possono svolgere anche un ruolo predittivo: nelle zone dove l’aria è peggiore, il Covid-19 sarà più crudele.