Due nuovi studi confermano che frammenti del virus SARS-CoV-2 rimangono nell’intestino di una percentuale significativa di persone colpite dalla versione estesa della malattia, provocando diversi effetti.
Il loro nome è fantasmi virali (viral ghosts) e potrebbero dare un contributo significativo alla ricerca sulle cause delle conseguenze a lungo termine dell’infezione provocata dal coronavirus SARS-CoV-2, cioè della sindrome chiamata ufficialmente PASC (da Post Acute Sequelae of Covid 19), ma più conosciuta come Long Covid.
Sono i detriti genetici del virus, talvolta frammenti di acidi nucleici (RNA) o intere proteine, ancora presenti nell’organismo che, pur essendo in piccolissime quantità (al punto da non essere individuabili con un tampone molecolare), possono probabilmente alimentare una risposta immunitaria o autoimmune e, in questo modo, provocare uno o più tra gli oltre 200 sintomi associati al Long Covid.
Due nuovi studi sul Long Covid
L’idea non è del tutto nuova, ma finora aveva trovato pochi riscontri. Ora, però, due studi usciti a pochi giorni di distanza la rinforzano, perché dimostrano, entrambi, che nell’intestino di almeno una certa quota di persone infettate da SARS-CoV-2 (molte delle quali colpite da Long Covid) si nascondono i ghosts virali.
Nel primo, pubblicato sulla rivista scientifica Med, i genetisti dell’Università di Stanford, in California, hanno monitorato per dieci mesi le feci di 113 persone che avevano avuto una forma da lieve a moderata di Covid, e hanno scoperto che dopo quasi un anno poco meno del 4% di loro aveva ancora ghosts intestinali (percentuale diminuita rispetto al 49% della prima settimana e al 12% rilevato dopo quattro settimane), e che tale “persistenza” era associata a una sintomatologia di tipo gastrointestinale. Nello stesso periodo di osservazione i test sull’apparato respiratorio si erano invece negativizzati.
Nell’ambito del secondo studio, condotto dai ricercatori dell’Università di Innsbruck, in Austria, e pubblicato – anche se ancora in attesa del via libera definitivo – sulla rivista scientifica Gastroenterology , sono state sottoposte a diversi tipi di esami 46 persone con una malattia infiammatoria intestinale, per un periodo che è arrivato a 219 giorni dopo il primo tampone positivo. Anche in questo caso si è scoperto che 32 di loro avevano ghosts virali e che in 24 erano presenti proteine intere del coronavirus, nascoste all’interno dei linfociti CD8+ (cellule importanti del sistema immunitario).
Dal materiale ottenuto dai ghosts, però, non è stato possibile ottenere una nuova coltura di virus, a conferma del fatto che non si tratta di particelle virali complete, ma solo di frammenti. I quali, tuttavia, possono provocare danni anche pesanti, come conferma il fatto che tre quarti dei malati con i ghosts avevano sintomi gastrointestinali, mentre nessuno di coloro che non mostravano fantasmi virali ne aveva avuti.
Long Covid: i dati diventano più convincenti
Come ricorda anche la rivista scientifica Nature in un articolo dedicato a questi studi, gli ultimi dati ne confermano altri pubblicati negli ultimi mesi, e l’insieme di queste evidenze sta iniziando a diventare convincente. Del resto, tutte le indagini condotte sulle autopsie hanno confermato che SARS-CoV-2 si annida virtualmente in ogni organo, forse veicolato anche da cellule del sistema immunitario come i macrofagi.
Chiarimenti anche sull’epatite c
Occorreranno ancora ricerche approfondite (e non semplici) per capire meglio perché il virus si annidi all’interno di questi serbatoi (chiamati reservoir) in alcuni pazienti ma non in tutti, se vi siano altri serbatoi, che cosa questa permanenza scateni, e se eventuali terapie volte a eliminare i ghosts possano curare il Long Covid. In ogni caso questa sindrome, che secondo una recente stima interessa non meno di cento milioni di persone nel mondo, inizia lentamente a essere meno oscura.
Quando verranno chiariti tutti i passaggi, inoltre, si potranno indagare meglio anche altre sindromi post-virali che hanno molte caratteristiche in comune con il Long Covid, come quelle che insorgono dopo una mononucleosi o dopo un’epatite C.
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