Cosa possiamo aspettarci dallo sviluppo sempre più ampio e inarrestabile dell’Intelligenza Artificiale? Per provare a descrivere un possibile futuro dell’umanità, si sono confrontati al Museo della Scienza e Tecnica di Milano due autorevoli esperti come Michele Di Francesco (Scuola Superiore IUSS di Pavia) e Barbara Henry (Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa).
Ne è scaturito un workshop ricco di spunti e indicazioni, in cui le molteplici questioni sollevate durante il dibattito erano tutte legate alle speranze e ai timori suscitati dall’Intelligenza Artificiale: stiamo ottenendo la libertà dal lavoro o ci stiamo condannando all’inutilità? Ci stiamo avviando verso un’epoca post antropica? E ancora: riusciremo mai a fondere il mondo delle emozioni e quello delle macchine?
Domande che non hanno una risposta già scritta, ma che tratteggiano nuove prospettive.
Secondo Michele Di Francesco, “Le macchine, nella loro purezza, non rappresentano un pericolo. Dipende da quello che vogliamo e insegniamo noi, non da quello che vogliono le macchine”, mentre Barbara Henry ha sottolineato come “la parola robot deriva dal ceco e rimanda al lavoro, alla liberazione del lavoro. La prospettiva del futuro del lavoro è un problema da affrontare politicamente”.
Entrambi poi hanno rilevato che “diventiamo sempre più dipendenti da macchine che conosciamo sempre meno” e che bisogna combattere l’idea educativa che la parcellizzazione del sapere vada incoraggiata. Per Michele Di Francesco “La scienza non è un insieme di ricette: è un modo di vedere il mondo”, mentre Barbara Henry ci ricorda che “Le scienze non sono in un ‘non luogo’: la scienza è sempre nata nella società”.
Qui di seguito vi proponiamo una sintesi dei loro interventi.
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Michele Di Francesco: “Menti umane e menti artificiali”.
Autonoma, generale, capace di apprendimento: questa è la definizione che possiamo dare dell’Intelligenza Artificiale.
Il confronto tra menti umane e mente artificiali parte da una domanda: siamo menti del Pleistocene intrappolate nell’ambiente tecnologico del Ventunesimo secolo? La mia risposta è che siamo del Pleistocene, ma sorretti dagli ambienti cognitivi di cui siamo continuamente circondati. Non è mai esistita una mente solo umana: da sempre si può parlare di una tecnologia dell’intelligenza. Il nostro mondo è costellato dalle tecnologie, basti pensare all’invenzione della stampa e prima ancora della scrittura: ci permetteva di non imparare a memoria enormi quantità di nozioni, andando ben oltre i limiti del nostro cervello. Questa perdita della nostra memoria biologica si è accompagnata alla possibilità di acquisire una quantità di informazioni sul mondo prima impossibile, e di trasmetterle alle generazioni successive.
Nell’affrontare il tema dell’Intelligenza Artificiale si può fare riferimento a due grandi ipotesi: la mente computazionale e la mente estesa.
La prima si rifà al modello di Touring, in cui si afferma che è possibile costruire delle strutture materiali capaci di calcolare. In questa visione, ‘la mente è il software che gira nel cervello’ e possedere una mente equivale quindi a possedere un dispositivo di elaborazione dell’informazione.
I processi cognitivi sono il risultato di manipolazione di rappresentazioni mentali interne, che mediano tra input percettivi e output comportamentali. Questa metafora è vera, ma non va presa alla lettera. In realtà la nostra corporeità determina il nostro pensiero. Nel corso del tempo abbiamo perso alcune delle nostre capacità mnemoniche biologiche, ma abbiamo guadagnato in strumenti/supporti di conoscenza.
Il modello della mente estesa si rifà all’epistemologia (indagine sulla struttura e i metodi delle scienze) esternista, secondo cui la ragione ha bisogno di un organo fisico, non può essere relegata solo nel cervello, deve tenere conto di quanto è stato costruito nel mondo, ovvero delle tecnologie di comunicazione.
Di sicuro, la mente è sempre meno nella nostra testa: abbiamo reso intelligente il mondo, ma la nostra testa si è sgravata è alleggerita di pensieri. La novità è che stiamo costruendo strumenti che vanno avanti da soli, senza di noi, con grande autonomia. Ma alla fine non ci sarà uno squilibrio tra questo ambiente intelligente e noi?
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Barbara Henry: “Smaterializzazione e corporeità nella robotica e roboetica contemporanee”.
Viviamo immersi in una dimensione mista, ibrida, in cui siamo connessi con l’intelligenza artificiale. Questi esseri, i Cyborg, “I non morti e i non nati da donna” (secondo la definizione dell’ingegnere visionario Vincenzo Tagliasco) ci stanno sfidando sul piano etico.
La realtà che ci circonda, i film che vediamo, ci pongono di continuo gravi interrogativi che toccano temi di etica e roboetica (ovvero la disciplina che regolamenta le relazioni tra automi ed esseri umani). Gli automi fanno parte di un futuro che è già presente. Ma quali sono le regole di comportamento che ci costringono a ripensare il rapporto tra umano e non umano?
Partiamo da una considerazione imprescindibile: non c’è nulla di più umano della volontà di sopravvivere o della volontà di vivere degnamente. E allora, parafrasando Kant, i robot dobbiamo trattarli come fini e non come mezzi, consapevoli di muoverci in un orizzonte postumano.
Questa idea che ci apre a una nuova dimensione di apprendimento etico. È una capacità critica che nasce da un processo morale in fieri: siamo ancora molto lontani dall’aver raggiunto questo livello.
Possiamo fare riferimento alle radici antiche di un futuro presente. Il postumanesimo è rappresentato da un passato che ci permette di comprendere il presente e il futuro, come dimostra una società tecnologicamente evoluta quale il Giappone, dove il sapere scientifico e tecnico convive e si ibrida in continua contaminazione con lo shintoismo (antica religione politeista) e altre forme di sapere non razionale.
Evitiamo di cadere nel determinismo: non ci sono futuri scritti, ma tutti da scrivere.