Risultati positivi (anche se da migliorare) per una tecnica sperimentata su 26 pazienti da un team di ricercatori olandesi e canadesi. Le cellule si differenziano nell’arco di 6 mesi e producono insulina.
Cento anni dopo la scoperta dell’insulina, due studi, pubblicati sulle riviste scientifiche Cell Stem Cell e Cell Reports Medicine, rappresentano un momento importante per la ricerca di cure efficaci contro il diabete di tipo 1. Questa malattia è autoimmune e le cellule beta del pancreas che producono proprio l’insulina vengono progressivamente distrutte dall’attacco errato del sistema immunitario. I due studi hanno dimostrato, per la prima volta nei pazienti, che il trapianto di cellule staminali e la loro successiva maturazione in cellule beta mature può funzionare.
L’insulina, lo ricordiamo, è l’ormone che svolge un ruolo fondamentale nel passaggio del glucosio (zucchero) dal sangue a tutte le cellule dell’organismo, che lo utilizzano poi per produrre energia.
I primi tentativi di rimpiazzare le cellule beta del pancreas distrutte dal sistema immunitario con cellule indifferenziate, ma capaci di specializzarsi e di secernere insulina in modo più fisiologico rispetto agli attuali sistemi (iniezioni di insulina sintetica), risalgono al 2006, ma i risultati sono sempre stati insoddisfacenti, a causa dei troppi ostacoli tecnici e clinici.
Complessi anche i tentativi di trapiantare intere “isole” di cellule beta pancreatiche. Da allora i diabetologi dell’Università di Leida, in Olanda, e quelli dell’Università della British Columbia canadese, hanno continuato a studiare le cellule staminali pluripotenti (in sigla, PSC) di derivazione embrionale, riuscendo a ottenerne una versione capace di stimolare anche la formazione di vasi sanguigni, una volta impiantate: elemento essenziale per il buon funzionamento della terapia. I nuovi vasi rendono infatti possibile la sopravvivenza e la maturazione di queste cellule verso strutture realmente funzionanti.
Negli animali da laboratorio le PSC hanno dato ottima prova di sé, e per questo si è passati ai primi volontari umani: 26 pazienti, nei quali si volevano verificare, innanzitutto, la sicurezza della tecnica, e poi i primi segnali associati alla funzionalità delle cellule trapiantate.
Inserimento sotto la pelle
Dal punto di vista chirurgico non sono emerse particolari difficoltà per l’impianto delle staminali, avvenuto sottocute, mentre da quello fisiologico si è visto che le cellule maturano entro 26 settimane, si differenziano e poi secernono insulina in risposta alla glicemia, anche se per il momento la quantità non si è rivelata tale da poter eliminare l’assunzione dell’ormone sintetico o dei farmaci ipoglicemizzanti.
A un anno dal trapianto, comunque, i pazienti avevano ridotto la necessità di insulina del 20%, ed erano rimasti il 13% di tempo in più entro i limiti fisiologici di concentrazione degli zuccheri nel sangue: un passo avanti significativo.
Tuttavia, la tecnica comporta anche una massiccia dose di immunosoppressori per evitare il rigetto (perché le staminali, pur essendo umane, non vengono prelevate dal paziente), con conseguenze che in due casi si sono rivelate molto pesanti.
Numerosi aspetti da mettere a punto
Ulteriori test hanno mostrato che le cellule impiantate erano ancora vitali 59 settimane dopo l’impianto, anche se la proporzione relativa tra i diversi tipi cellulari era diversa rispetto a quella che si ha nel pancreas.
Nulla si sa, poi, della durata totale delle cellule: non è chiaro, cioè, se una volta maturate le PSC vadano incontro a morte, oppure se costituiscano un sistema che si mantiene vitale e attivo.
Per ora, quindi, gli esiti non sono ottimali, e restano numerosi aspetti da migliorare e da comprendere, quali - come dicevamo - la quantità di cellule da impiantare, il dosaggio degli immunosoppressori e molto altro. Tuttavia, il risultato è considerato estremamente positivo, perché è la prova del fatto che la via è percorribile.