Nel darne notizia sulla rivista scientifica Emerging Infectious Diseases, pubblicata dai Centers for Disease Control and Prevention statunitensi, un’équipe di ricercatori delle Università di Helsinki e di Nairobi ha riferito che la concentrazione del virus era alta nei tessuti dei pipistrelli scoperti in Kenya, a riprova di un’infezione molto attiva. Questi animali, in ogni caso, producono quantità massicce di anticorpi specifici, che permettono loro di non soccombere e di convivere senza danni (così facendo, i pipistrelli funzionano, però, da serbatoio per Ebola).
Secondo i ricercatori, il ceppo Bombali non sembra capace di infettare l’uomo, come confermano i test effettuati sulle persone che si sono presentate con una sindrome febbrile negli ospedali della zona dove è stato isolato il virus. Ma il rischio di salto di specie (la temuta “spillover infection”, come dicono i tecnici) è sempre presente, e per questo la situazione viene monitorata attentamente, cercando di tenere sotto controllo la “geografia” del virus senza danneggiare, nello stesso tempo, i pipistrelli, perché esercitano una preziosissima funzione nella lotta agli insetti pericolosi quali la zanzara aedes aegypti, che veicola numerose malattie, come la febbre gialla, la dengue e altre.
È importante esaminare il maggior numero possibile di pipistrelli e studiare i virus che questi animali ospitano – commentano i ricercatori – per cogliere il prima possibile eventuali cambiamenti che possano danneggiare gli uomini. Più informazioni si raccolgono, maggiori sono le possibilità di creare vaccini e farmaci efficaci contro le febbri emorragiche innescate da Ebola.
Ma come ha fatto il virus a raggiungere il Kenya, visto che i pipistrelli non sono in grado di volare per 6.000 chilometri? Probabilmente, aggiungono gli esperti, il virus Ebola esiste da molto più tempo di quanto si sia immaginato fino a ora (l’idividuazione del virus risale solo a pochi decenni fa) e ha un bacino di trasmissione, nel mondo animale, più ampio del previsto.