Sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Nature Mental Health i risultati di uno dei più ampi studi realizzati finora sul tema della solitudine e dei suoi effetti sulla salute. La mancanza di relazioni sociali risulta associata a un aumento del rischio di sviluppare deficit cognitivi, nonché a una maggior probabilità di insorgenza dell’Alzheimer. L’attenzione è cresciuta dopo l’emergenza Covid.
La solitudine, soprattutto nelle fasi più avanzate della vita, rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di deficit cognitivi e demenze. L’associazione tra l’isolamento sociale e alcune malattie neurodegenerative non è nuova, ma ora uno dei più ampi studi realizzati sull’argomento porta ulteriori conferme, e ne descrive meglio le caratteristiche.
Nello specifico, i neurologi ed epidemiologi dell’Università della Florida (Stati Uniti) guidati dall’italiana Martina Luchetti, hanno preso in esame 21 ricerche pubblicate durante gli ultimi anni (nell’ambito delle quali erano state coinvolte circa 600.000 persone), e hanno verificato il ruolo specifico dell’isolamento sociale nell’insorgenza del deterioramento cognitivo e delle demenze.
Dopo avere introdotto una serie di elementi correttivi per altri possibili fattori di rischio come la depressione, i ricercatori americani hanno poi pubblicato i risultati del loro lavoro sulla rivista scientifica Nature Mental Health.
Cosa hanno potuto accertare? Che la solitudine prolungata fa aumentare del 31% il rischio di deficit cognitivi, in entrambi i sessi, a prescindere dall’età nella quale si inizia a manifestare. Insomma, chi vive da solo e ha scarse relazioni sociali per periodi molto lunghi (anni, o decenni), si espone a un chiaro aumento della probabilità di sviluppare una forma di demenza, compresa quella di Alzheimer nei casi più gravi, rispetto a chi invece può contare su una famiglia, o anche solo su una rete sociale di supporto efficiente e attiva.
I danni provocati dall’assenza di relazioni sociali si accumulano nel tempo
«Questi risultati non devono sorprendere, data la crescente evidenza che collega la solitudine alla cattiva salute – ha spiegato la professoressa Luchetti. – I cambiamenti neuropatologici che portano alla demenza iniziano decenni prima dell'esordio clinico. E la solitudine, l'insoddisfazione per le relazioni sociali, possono avere un impatto significativo sulle nostre funzioni cognitive».
Il lavoro del team dell’Università della Florida è stato incentivato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dalle autorità statunitensi (in particolare, dal Surgeon General), che hanno dichiarato la solitudine una crisi di sanità pubblica in seguito alla pandemia di Covid-19 e alle relative restrizioni sociali. «È aumentato l’interesse per le conseguenze della solitudine sulla salute - conferma Martina Luchetti - e adesso appare particolarmente importante capire perché, e in quali circostanze, aumenta il rischio di demenza in età avanzata».
Le cause della demenza
La percentuale (+ 31%) individuata dai ricercatori americani è decisamente superiore rispetto a quella che era già stata indicata da una delle commissioni più impegnate sui fattori di rischio (per la precisione, la commissione istituita dalla rivista Lancet e dedicata in modo specifico alla demenza di Alzheimer). La commissione aveva individuato 14 elementi che innescano, nel loro insieme, il 50% dei casi di demenza (come ipertensione, fumo, obesità, depressione, perdita dell'udito, inattività fisica, diabete, consumo eccessivo di alcol), e aveva attribuito un ruolo inferiore alla solitudine. Ma queste differenze sono probabilmente dovute alle diverse finalità degli studi, perché quello di Lancet è decisamente più focalizzato sull’Alzheimer.
Uguali, comunque, sono le conclusioni a cui arrivano i ricercatori: la solitudine andrebbe contrastata con ogni mezzo, anche con investimenti pubblici dedicati, per realizzare, ad esempio, un maggior numero di strutture che possano essere fulcri di socializzazione.