Molto di più di un mero oggetto estetico, lo specchio ha affascinato e influenzato la cultura e l’arte di molti popoli.
Tra sacro, virtuale e funzionale che centralità assume nel mondo scientifico e in quello artistico?
Lo specchio è storicamente il primo dispositivo di virtualità, o di realtà aumentata, sia come specchio d’acqua che dà vita al riflesso tragico del mito di Narciso, o come oggetto che, stando alle notizie di oggi, sarebbe nato in area nordafricana e asiatica: Egitto per alcuni, Turchia secondo altri.
Considerato sacro per la capacità di proporre una realtà alternativa, tanto che Narciso si innamora sì dell’immagine di se stesso, pensando, però, che sia un’altra persona. Insomma, lo specchio nasce come dispositivo disfunzionale, qualità che ritroviamo anche nel quadro di Picasso, Donna allo specchio, 1932, MoMA di New York, in cui la donna che si specchia vede riflessa non se stessa, ma un’altra donna. Si tratta di una concezione esistita in tutte le culture e che, in parte, continua a esistere in varie forme ancora oggi. Lo specchio è, non solo un “duplicatore” della realtà, ma anche un trasformatore della stessa a partire dal suo iniziale impiego nei riti sacri, fino all’uso quotidiano per la tolettatura.
Ci guardiamo allo specchio non solo per vedere come siamo, ma soprattutto per “aggiustarci”, creando l’immagine di come vorremmo essere fatti. Davanti allo specchio non siamo mai fermi, agiamo, ci facciamo. In questo senso non è un duplicatore del qui e ora, ma un mezzo per viaggiare altrove, creando ipotesi di futuro a nostra presente e prossima immagine e somiglianza.
Lo specchio tra neuroscienze e arte
Ciò accade anche con i cellulari usati per fare i selfie, quali specchi estetico esistenziali contemporanei. Per questo il sociologo Vanni Codeluppi, nel suo libro “Mi metto in vetrina”, 2015, Mimesis, ha parlato di “vetrinizzazione” della società - data dalla facilità di utilizzazione dei media - che permette di creare selfie da diffondere per esporsi, mettersi in vetrina, in rete. Come dice Semir Zeki, scienziato pioniere della neuro estetica, nel suo libro La visione dall’interno (Blackwell Pub, 1993): gli artisti hanno intuito molto prima degli scienziati l’organizzazione e funzionamento del cervello legato alle zone della percezione visiva che li ha portati ad adottare dei dispositivi di riflessione estetica.
Questo vale anche per quegli artisti che, fin dall’antichità, hanno impiegato a vario titolo lo specchio per le sue forti qualità simboliche. Difatti, quando in un’opera si trova rappresentato uno specchio, esso non è mai solo memento mori quale simbolo di vanitas, ma anche segnale di una visione alternativa dimostrata dal fatto che, sin da tempi remoti, tanti artisti hanno creato opere in cui è dipinto o scolpito uno specchio.
Soprattutto Michelangelo Pistoletto ne fa uso di veri a partire dal 1961, quando decide di utilizzarlo come base per serigrafarci sopra delle immagini ferme che, insieme al riflesso dell’ambiente e di noi in movimento, sono l’opera che ci parla di una realtà che si muove trasformandosi nel tempo. Si tratta non più della rappresentazione del tempo come fermo immagine metaforica, ma della presenza attiva del tempo relativo teorizzato da Einstein.
L’uso della tecnologia come mezzo per creare opere mai finite
Tutto questo torna utile per i nostri discorsi legati al progetto Digital Aesthetics di IBSA Foundation e del Museo nazionale scienza e tecnologia Leonardo da Vinci di Milano, soprattutto con la serie dei quadri specchianti del 2018 intitolati Comunicazione, in cui sono riprodotte immagini di persone intente ad usare telefonini. Di questi Pistoletto dice: “Dentro gli smartphone c’è l’estasi della ricerca, perché oggi il fenomeno della comunicazione ha assunto caratteristiche e dimensioni inimmaginabili. Un cellulare ci mette istantaneamente in rete con il mondo intero. I Quadri Specchianti, come computer ante litteram, sono allo stesso tempo il presente e la memoria. Inoltre sono dei selfie in quanto ritraggono la persona con tutto ciò che sta alle spalle. L'umanità è ormai tecnologicamente collegata, fino al punto da rendere precaria la comunicazione interindividuale fuori dal sistema tecnologico.”
Ecco che la tecnologia è specchio e il cellulare il suo mezzo tecnico-ottico in cui ci specchiamo, non solo per comunicare, ma soprattutto per creare una realtà aumentata che oggi è la parte preponderante della nuova realtà immersa in un futuro continuo. Lo specchio e i cellulari sono dispositivi aperti che generano, con la nostra collaborazione, immagini aperte e quindi opere aperte, mai finite.
È un futuro in continuo movimento che si serve della tecnologia dell’Intelligenza Artificiale anche per fini estetici oggi al centro della discussione, tant’è che gli artisti ne utilizzano le possibilità. In questo mezzo, in cui la comunicazione tradizionale è l’ultima cosa, il selfie acquista una centralità ottico-sociale volta a ridefinire il senso dell’autoritratto e del ritratto. Paradossalmente, esso è un nuovo strumento produttore di verità come sottolineato ne Il fazzoletto della vera icona, 2018, di Luigi Presicce, performance tableau vivant, tenutasi presso il MAP, Museo di Arte Popolare, di Città del Messico.
In quest’opera d’arte vivente, dal titolo rivelatore di ricerca della verità dell’immagine, un gruppo di performer è intento a riprendere, con i telefonini in mano, l’icona sacra, la vera immagine; vale a dire l’immagine achiropita non fatta da mano umana, ma dal Dio di cui l’onnipresente cellulare di una società spettacolarizzata allo specchio si fa metafora.
A cura di Giacinto Di Pietrantonio