Ricerca d’avanguardia all’Università della Pennsylvania. Quando si duplicano, i virus creano anche copie “sbagliate” del loro codice genetico. Queste copie, modificate ad hoc, potrebbero diventare una terapia contro il Covid.
Per ora si tratta solo di quella che, nel gergo scientifico, viene definita una proof of concept, cioè una dimostrazione della correttezza di un’ipotesi, alla base di un certo tipo di esperimento.
Ma se i risultati nei passaggi successivi dovessero dar ragione ai ricercatori della Pennsylvania State University, la lotta al virus SARS-CoV-2, responsabile della malattia Covid-19, potrebbe imboccare una strada finora inesplorata.
Di cosa si tratta?
I genetisti e virologi statunitensi hanno realizzato una serie di test in vitro per controllare se sia o meno plausibile sfruttare il coronavirus contro sé stesso, approfittando di alcune sue caratteristiche naturali e di alcuni suoi errori per neutralizzarlo; e i primi risultati ottenuti sono stati incoraggianti.
Ma vediamo più nel dettaglio come funziona (o potrebbe funzionare) questo metodo. In natura - hanno spiegato i ricercatori sulla rivista scientifica PeerJ - tutti i virus, quando si duplicano all’interno dell’organismo ospite, producono anche copie difettose di sé stessi, con lunghe sequenze di codice genetico che mancano, o sono sbagliate. Queste copie difettose del virus vengono definite defective interfering virus (virus difettosi-interferenti, o DI, in sigla).
I virus DI, dunque le copie difettose, in molti casi non vengono eliminati (non muoiono, verrebbe da dire, anche se il termine è improprio), ma anzi ingaggiano una dura competizione con i virus “regolari” perché anche loro vogliono vivere, e duplicarsi. In questa lotta per la sopravvivenza, che avviene all’interno delle cellule, vincono spesso i virus DI, perché hanno un codice genetico più corto, e quindi anche più rapido da replicare, e perché riescono a “rubare” ai virus regolari alcune parti del codice genetico che a loro mancano e che sono fondamentali per completare la duplicazione, parassitandoli. “Antagonisti” costruiti in laboratorio
I ricercatori dell’Università della Pennsylvania hanno allora pensato di sfruttare questa competizione, creando con tecniche di ingegneria genetica una serie di copie DI del coronavirus fortemente parassite, e mettendole a contatto, in laboratorio, con cellule (di scimmia) già infettate dal SARS-CoV-2 normale.
Hanno così visto che, in pochissimo tempo, i virus DI avevano fatto crollare la concentrazione dei virus normali (dimezzandola in sole 24 ore), perché la loro velocità di replicazione è doppia rispetto a quella del SARS-CoV-2 “regolare”.
Non solo: la quantità di materiale genetico dei DI è aumentata 3,3 volte più in fretta rispetto all’originale, e questo è un fatto positivo, visto che i virus DI realizzati dai ricercatori americani, a differenza di quelli originali, non provocano il Covid.
Al via nuovi studi
Secondo gli studiosi, in verità, questi dati non sono ancora sufficienti per considerare quella con i virus DI una vera terapia, ma ora gli esperimenti andranno avanti.
Si cercherà di capire meglio anche cosa succede nel tempo, perché il fenomeno della competizione cresce in modo non lineare: più diminuisce, cioè, il materiale genetico normale, perché viene utilizzato dai virus DI, più diminuisce anche l’efficienza della replicazione degli stessi DI, che non trovano più molecole da sfruttare. Alla lunga tutto ciò porta a una fine della replicazione di tutti i tipi di virus presenti.
Bisognerà anche capire quale sistema utilizzare per veicolare all’interno delle cellule le copie DI. E andrà naturalmente affrontato anche il tema delle varianti del virus. C’è insomma ancora molto lavoro da fare, ma l’approccio appare interessante, e in grado di offrire nuovi strumenti per combattere questo e altri tipi di virus.