L’arte digitale fa sbiadire sempre di più il sottile confine fra artista e spettatore. Ne è un esempio Chromata, una delle opere interattive di Michael Bromley.
“Ciao, sono uno sviluppatore di software con particolare attenzione alle applicazioni web, all'esperienza utente e al coding creativo. Attualmente la maggior parte del mio tempo lavoro su Vendure, un framework e-commerce open-source.” Questo è l’amichevole saluto con cui Michael Bromley ci accoglie quando ci si collega al suo sito web.
Per quanto ci riguarda, la prima cosa che salta agli occhi è che per definirsi non usa la parola artista, anche se molti lo invitano a partecipare a mostre proprio in qualità di artista. È il caso di una delle sue opere più note: Chromata, attualmente installata presso il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia (MUST) Leonardo da Vinci di Milano, grazie al supporto di IBSA Foundation e alla collaborazione con Fondazione Rocca.
È la stessa opera con cui Bromley è stato invitato a partecipare, sempre in collaborazione con IBSA Foundation, ad Ars Electronica di Linz, la più importante Biennale di arte elettronica al mondo.
Come noto, il museo milanese MUST è dedicato a Leonardo da Vinci, il genio che a Milano trascorse buona parte della sua vita certo come artista, ma spendendovi la maggior parte del tempo come scienziato. Ragion per cui questo luogo e questa città sembrano il posto migliore per collocare le installazioni di chi, come Bromley, lavora creando opere che nascono dal dialogo tra arte, scienza e tecnologia, in questo caso quella digitale. Difatti, sempre per restare nel digitale, se cerchiamo il nome Leonardo da Vinci su Google, il primo link ci manda su Wikipedia che lo presenta come scienziato, anche se i suoi più noti lavori sono pitture: opere d’arte, appunto.
L’arte e la sua definizione
A questo punto Michael Bromley ci aiuta a riannodare quei fili del discorso sull’arte che stiamo usando per cucire questo articolo: l’eterna questione tra l’arte, o la sua definizione, e tutto il resto. È un dibattito che risale alla notte dei tempi, poiché fin dai greci l’arte viene definita τέχνη (tecnica). Naturalmente ciò ha più a che fare con la scienza, ma anche con il concetto del bello non tanto come estetica, ma più come etica, dato che per i greci bello significa anche buono, e quindi caratterizzato dalla qualità di utilità morale dell’arte.
Si tratta per questo di una forma di arte condivisa ed è proprio la condivisione, come sapere aperto collettivo, ad essere al centro dell’opera di Michael Bromley. Certamente, se guardiamo, o meglio, se interagiamo con le sue opere vediamo che hanno formalmente poco a che fare con l’arte di Leonardo o degli antichi greci. Le forme generate dalle applicazioni create, anzi, sviluppate da Bromley utilizzano segni e forme che sembrano essere un ripasso dell’arte moderna e contemporanea dall’Impressionismo ai giorni nostri.
Non è un caso che nel suo intervento-conferenza “The Artist and the Machine”, che si è tenuto il 30 maggio 2017 nell’ambito del convegno “WeAreDevelopers”, Bromley racconta che cosa è l’arte, chi fa l’arte e con quali mezzi. Lo fa mostrando esempi in cui mette la sua arte in relazione a quella dell’inglese Desmond Paul che, nel 1960, inventa una macchina analogica con cui ha creato immagini astratto-informali che Bromley definisce “uno dei primi esempi di computer art”. Bromley ha inoltre citato il Sirograph, strumento che produce segni curvilinei, inventato nel 1965 da Denys Fischer, anche qui chiedendosi chi sia l’artista: l’inventore o i bambini che con esso creano disegni di casualità meccanica manuale?
Si tratta della ricerca di risposte in cui si fa soccorrere anche da Max Ernst, mostrando come, nel 1942, il maestro surrealista creava disegni casuali quali The Bewildered Planet, o Young Man Intrigued by the Flight of a Non- Euclidean Fly, ovvero disegni-pitture realizzate con una macchina inventata da Ernst stesso, dove su un foglio messo in orizzontale a terra viene fatto oscillare un filo a piombo alla cui punta è legato un oggetto disegnante, matita o penna che sia non ha importanza; l’importante è che realizzi casualmente un’immagine che sa di cosmo.
Bromley mette queste immagini e macchine artistiche a confronto con i disegni generati dai suoi programmi di creative-coding, mostrandoci le loro affinità elettive e non solo. Questo è ciò che avviene nelle sue opere in generale, e soprattutto con Chromata, un software che permette di elaborare immagini di partenza fornite da ognuno di noi che prendono vita su un grande schermo quale esempio di arte generativa, portando il pubblico al centro di esperienze estetiche immersive.
Il processo di co-creazione dell’arte di Bromley
Bromley è uno sviluppatore di software esperto in applicazioni web, user experience e creative coding, specializzato in JavaScript, TypeScript e Angular con cui realizza progetti open-source che consentono di usare il codice come strumento creativo per dare vita a esperienze estetiche legate a suoni o immagini. Si tratta di applicazioni come SKQW, una multipiattaforma audiovisuale realizzata con Electron e Angular; o Heavenly Glory, realizzato utilizzando sistemi API getUserMedia di WebRTC per acquisire il flusso della webcam e quindi utilizzare un algoritmo di rilevamento del movimento per creare effetti sonori e disegnati di film di kung-fu abbinati ai tuoi movimenti. Oppure altre come An old-school arcade-style 3D shoot-em-up, rendered entirely with CSS and DOM, un generatore di ambienti virtuali e spazi dilatati che ricordano le installazioni cinetiche degli anni Sessanta. E ancora, Draw a Cat: app di disegno creato per disegnare gatti che alla fine è diventato una sorta di esperimento artistico di crowdsourcing, in cui ognuno può scegliere di disegnare un proprio gatto.
Insomma, si tratta di applicazioni per la creazione e/o co-creazione di opere all’infinito. Un modo di approcciarsi il cui lavoro esplora quell’area che unisce la programmazione e la creatività nel mondo analogico e soprattutto digitale.
E allora anche qui la domanda o le domande su che cosa e chi fa l’arte e chi è l’artista continuano a persistere, mantenendo viva la sua ricerca, perché Bromley non usa mai per sé la parola artista, ma sempre quella di sviluppatore, cercando di allargarne anche ironicamente il senso. Infatti, sempre Bromley: “Se i miei inizi sono stati nell’arte tradizionale essa si è poi sviluppata nella computer art, trovando quest’ultima molto più fantastica, in quanto la pittura è grande, ma facendola al computer non ne senti la puzza e la fai comodamente da seduto.”
A cura di Giacinto Di Pietrantonio