La malattia di Parkinson ha, almeno in parte, un’origine autoimmune e i segnali dell’insorgenza di questa patologia potrebbero essere trovati con un forte anticipo, andando a cercare nel sangue proprio i “marcatori” dell’autoimmunità. Lo sostengono i ricercatori del La Jolla Institute for Immunology (California), che hanno pubblicato i risultati del loro lavoro sulla rivista Nature Communications. «Una diagnosi estremamente precoce potrebbe fare una grande differenza (nel trattamento della malattia, ndr)» – afferma Cecilia Lindestam Arlehamn, primo autore dello studio.
Il Parkinson, lo ricordiamo, ha una natura neurodegenerativa e porta al danneggiamento di alcune aree cerebrali, causando problemi motori, anche molto seri, e disturbi cognitivi. Un ruolo chiave nella malattia è attribuito all’alfa-sinucleina, una proteina che, in una forma alterata, si accumula in alcune zone del cervello (per motivi tuttora misteriosi) distruggendo con il passare del tempo i neuroni che producono la dopamina, un neurotrasmettitore essenziale per il controllo dei muscoli.
I ricercatori di La Jolla avevano già dimostrato nel 2017 che l’alfa-sinucleina può innescare reazioni autoimmuni da parte dei linfociti T (cellule fondamentali del sistema difensivo dell’organismo). In pratica, secondo gli studiosi, l’alfa-sinucleina, soprattutto quando si accumula, “attira” i linfociti T e li spinge ad attaccare per errore le cellule del cervello, contribuendo così alla progressione del Parkinson. Non è chiaro, però, se queste reazioni autoimmuni siano una causa scatenante della malattia, oppure peggiorino “soltanto” la degenerazione di neuroni già compromessi dall’accumulo di alfa-sinucleina.
Nell’ambito dello studio pubblicato su Nature Communications, i ricercatori americani sono andati a controllare la “cronologia” delle interazioni tra l’alfa-sinucleina e i linfociti T, e hanno dimostrato – analizzando il sangue di un ampio campione di malati – che esiste un’evoluzione temporale molto specifica in questo delicato rapporto. In particolare, gli studiosi hanno scoperto che i linfociti T “stimolati” per errore dall’alfa-sinucleina sono presenti in grande quantità molti anni prima della comparsa dei sintomi della malattia, e mostrano una grande reattività. Poi, con il passare del tempo, mentre la patologia fa il suo corso, questi linfociti diminuiscono sempre più, e alla fine scompaiono.
«L’individuazione dei linfociti T “reattivi” potrebbe aiutare nella diagnosi delle persone a rischio, o comunque durante le prime fasi dello sviluppo della malattia, quando molti dei sintomi non sono ancora stati rilevati» – ha spiegato Alessandro Sette, coordinatore dello studio. Ma non basta. Se si riuscissero a trovare i linfociti T anti alfa-sinucleina appena si formano, si potrebbe provare a neutralizzarli prima che accentuino la degenerazione delle cellule nervose.
Esistono già terapie per trattare le infiammazioni provocate dai linfociti T autoreattivi, e i pazienti che le utilizzano, per altre patologie, si sono rivelati meno esposti alla malattia di Parkinson. Anche questa può essere un’indiretta conferma delle tesi sostenute dagli studiosi californiani.