Ricerca d’avanguardia negli Stati Uniti: individuate 32 proteine nel sangue che sembrano in grado di predire l’insorgenza dell’Alzheimer. La diagnosi precocissima sarebbe preziosa anche per poter utilizzare con sicurezza due nuovi farmaci approvati recentemente.
Diagnosticare la demenza di Alzheimer quando sta iniziando a svilupparsi – ma non è ancora rilevabile a livello clinico, in modo semplice, affidabile e relativamente economico – è un obiettivo che, finora, era sembrato quasi impossibile (le uniche tecniche utilizzate, per il momento, sono molto invasive, come le punture lombari, o particolarmente sofisticate, come alcuni tipi di immagini radiologiche/imaging cerebrale, non alla portata di tutti).
Eppure, l’esigenza di una diagnosi precoce è ormai sempre più “pressante”, anche alla luce dell’approvazione negli Stati Uniti di due nuovi farmaci (anticorpi monoclonali), il Lecanemab e l’Aducanumab, e probabilmente anche di un terzo nei prossimi mesi, che sembrano avere qualche effetto contro l’Alzheimer, ma appaiono anche molto delicati e pericolosi, e richiedono, prima, una diagnosi certa e accurata.
Ora questo obiettivo è più vicino, grazie a uno studio molto importante, durato oltre 25 anni, i cui risultati sono appena stati pubblicati sulla rivista Science Translational Medicine dai neurologi e ricercatori del National Institute on Aging e di altre università americane.
Nell’ambito di questa ricerca sono state analizzate oltre 4.800 proteine presenti nel plasma (la parte del sangue priva delle cellule) di 11.000 persone con un’età compresa tra i 45 e i 65 anni: la concentrazione di queste proteine è stata attentamente monitorata, appunto, per un quarto di secolo. Gli studiosi hanno cercato di verificare, in particolare, se, fra queste 4.800 proteine, ve ne fosse qualcuna le cui variazioni potessero permettere di diagnosticare con forte anticipo l’arrivo della demenza di Alzheimer.
E in effetti è così: i ricercatori hanno scoperto che non una, ma ben 32 proteine cambiano in modo specifico nelle persone destinate ad ammalarsi, e dunque potrebbero costituire una “firma biologica” capace di agire da marcatore. Dodici di queste molecole hanno poi una relazione molto stretta con altre proteine presenti nel liquido cerebrospinale (che avvolge il cervello e il midollo spinale), già considerate marcatori della malattia, perché indicatori di neuroinfiammazione e neurodegenerazione.
Alcune delle 32 proteine/marcatori sembrano capaci di predire la malattia circa 20 anni prima che si manifesti, mentre altre, associate alla coagulazione del sangue, 10 anni prima.
Volendo selezionare solo le più efficaci, dal punto di vista diagnostico, il numero si riduce a 9 e comprende anche una proteina chiamata SERPINA3, contro la quale esistono già anticorpi monoclonali specifici (perché è coinvolta anche in altre malattie), usati a fini di ricerca.
Le verifiche proseguiranno, per capire definitivamente se un’analisi delle proteine del plasma sia davvero in grado di fornire risposte chiare ma, se così fosse, l’approccio alla demenza potrebbe cambiare in modo notevole, soprattutto dal punto di vista delle diagnosi precoci e degli screening di popolazione (che andrebbero realizzati a partire da una certa età), attualmente impossibili. Ma, come dicevamo, diventerebbe anche più semplice e “mirato” l’uso dei nuovi farmaci appena approvati negli USA, che presentano ancora molte ombre, soprattutto se non vengono somministrati in fasi davvero precoci della malattia di Alzheimer.