Parla Silvestro Micera, responsabile della parte bioingegneristica dell’avanzatissimo progetto realizzato dal Politecnico di Losanna, che ha permesso a tre persone paraplegiche di ricominciare a camminare.
Hanno fatto il giro del mondo le immagini di Michel Roccati, il trentenne paraplegico che ha ripreso a camminare, sia pure con un sostegno, dopo un intervento chirurgico all’avanguardia eseguito a Losanna. Anche altre due persone paralizzate – su 27 pazienti inizialmente arruolati nella sperimentazione – hanno ottenuto lo stesso, eccezionale risultato, grazie a un’équipe coordinata da Grégoire Courtine del Politecnico federale di Losanna (EPFL), con il supporto di decine di medici, bioigegneri e ricercatori di diversi Paesi.
Ma l’importanza del lavoro, pubblicato sulla rivista scientifica Nature Medicine, va oltre il successo per la vita di questi primi volontari, perché illustra, nei fatti, che cosa significhi portare avanti con determinazione studi molto complessi per anni, e rivela quanto ormai la medicina sia integrata con la tecnologia e con le scienze cosiddette STEM (acronimo di science, technology, engineering, mathematics), dunque con la matematica, la fisica, la bioingeneria, l’informatica, e quali sinergie possano originare da tale fusione per niente a freddo.
Questo risultato arriva dopo oltre un decennio di sperimentazioni in un primo momento sui ratti, poi sui primati non umani e infine sull’uomo. «Ciò che è cambiato, e che ha impresso la spinta decisiva, è stato considerare nella sua straordinaria complessità (e non solo negli elementi fondamentali, come accadeva prima) il sistema che traduce uno stimolo nervoso in un movimento» - spiega Silvestro Micera, della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, responsabile della parte bioingegneristica del progetto e relatore del forum organizzato nel 2016 da IBSA Foundation “New technologies to treat neurodisorders: neuroprosthetics”.
Quando c’è una lesione spinale, il segnale che arriva dal cervello non può raggiungere le cellule nervose (e le loro estremità, dette radici dorsali) deputate a regolare il movimento dei muscoli. Finora si cercava di far passare comunque un impulso elettrico attraverso le fibre a valle della lesione, utilizzando protesi riadattate che originariamente erano destinate, in realtà, a interrompere la trasmissione degli stimoli dolorosi. Ma i risultati si sono rivelati non ottimali, a causa delle caratteristiche di queste protesi (corte, in silicone, con pochi elettrodi): il tipo di stimolo che riuscivano a trasmettere era troppo poco sofisticato.
Per questo gli scienziati che stanno lavorando al progetto hanno iniziato a ragionare in modo diverso. «Siamo passati – continua Micera – da una visione basata su ciò che si sapeva teoricamente della trasmissione degli impulsi, a una vera e propria mappa personalizzata delle lesioni di ciascun paziente. In questo modo abbiamo avuto la cognizione esatta di ciò che era andato perduto e, di conseguenza, di come intervenire sullo stesso midollo spinale, nella zona epidurale, alle radici dei nervi».
Immagini dettagliatissime
Quello che Micera sintetizza così è in realtà il cuore di un lavoro durato anni, durante i quali è stato messo a punto, innanzitutto, un metodo di risonanza magnetica funzionale e di TAC specifiche per il midollo spinale, in genere molto difficile da “fotografare” tramite gli esami di imaging, data la complessità del tessuto e dei ruoli che svolge.
Quindi, dopo avere integrato migliaia di immagini con altre immagini derivanti da autopsie e da nervi sani, non lesionati, l’attenzione si è concentrata sull’elaborazione delle mappe reali, e sui modelli di previsione degli effetti di una stimolazione specifica nella zona individuata come ottimale.
Spiega ancora Micera: «I calcoli e le simulazioni eseguite in base alle mappe ci hanno indicato non solo dove intervenire, ma anche con che tipo di stimolazione, e di quale intensità. In questo modo abbiamo potuto realizzare gli elettrodi personalizzati, che poi il team di neurochirurghi coordinati da Jocelyne Bloch ha inserito a livello epidurale, con i risultati che si sono visti nei primi tre pazienti, e che speriamo di vedere anche negli altri».
Con questa tecnica, una volta che l’impianto è stato inserito nel midollo, entro un solo giorno – risultato mai raggiunto prima – il paziente inizia a percepire la sensazione del movimento. In media entro un mese impara poi a muoversi autonomamente, cioè a regolare il funzionamento degli elettrodi tramite un tablet che, a sua volta, comanda un dispositivo esterno, da legare in vita. Questo dispositivo è in grado di interagire con un chip impiantato nell’addome, che governa l’attività degli elettrodi.
Necessarie migliori regolazioni
Naturalmente, mentre il programma va avanti, molto resta da capire. Per esempio, si spera di passare dal tablet a uno smartphone, magari a comandi vocali, che consenta ulteriore autonomia. Ma, soprattutto, conclude Micera, «vogliamo comprendere meglio quali sono i pazienti destinati a recuperare le funzionalità perdute in maniera più soddisfacente (stabilendo limiti temporali per le lesioni, che oltre un certo numero di mesi sono difficilmente recuperabili, e limiti anatomici) e quali, invece, non possono trarre grandi giovamenti da questo approccio. Vogliamo anche continuare ad affinare l’elaborazione delle mappe e la conseguente progettazione personalizzata dei dispositivi elettronici».
Nel frattempo, la Food and Drug Administration (FDA, l’ente che controlla e autorizza l’uso dei farmaci e delle altre terapie negli Stati Uniti) ha autorizzato l’avvio di uno studio multicentrico, per aumentare la casistica e trasferire le conoscenze europee anche ai colleghi d’oltreoceano che lavorano sul tema, con l’idea di ampliare sempre più il network, come pure le mappe.
In laboratorio, intanto, continuano gli studi sui modelli animali per impianti da inserire direttamente nel cervello, per la stessa finalità.