Studio su 20 pazienti, che erano stati colpiti in modo grave da infezioni batteriche. I ricercatori li hanno curati iniettando in vena virus particolari, chiamati fagi, che si sono rivelati in grado di identificare i batteri e annientarli.
Somministrare un virus, come fosse una medicina, per curare i pazienti affetti da gravi infezioni provocate da batteri. Sembra un controsenso, ma non lo è, se i virus di cui parliamo sono i cosiddetti batteriofagi, o semplicemente fagi.Questi tipi di virus, numerosissimi sulla Terra, sono infatti “progettati” dalla natura per colpire esclusivamente i batteri (quindi non le cellule umane) e duplicarsi al loro interno. I batteri poi, dopo questo “trattamento”, quasi sempre muoiono.
Diversi centri di ricerca nel mondo stanno cercando di identificare e selezionare i fagi “mirati” contro i batteri più pericolosi per gli uomini (quelli che non rispondono più agli antibiotici), e utilizzarli come un’alternativa ai farmaci.
Da tempo, in verità, si cerca di sfruttare, con cautela, le potenzialità dei fagi, ma finora gli esiti erano sempre stati parziali, e poco utilizzabili a fini terapeutici. Adesso però, grazie a un’importante ricerca internazionale coordinata dai biologi dell’Università della California, sede di San Diego – i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Clinical Infectious Diseases – potrebbe aprirsi un capitolo del tutto nuovo.
Gli studiosi californiani sono partiti dall’esperienza personale di uno di loro, Tom Patterson, che cinque anni fa stava per morire in seguito a un’infezione batterica resistente a tutti gli antibiotici disponibili. Patterson è stato il primo essere umano a ricevere una terapia sperimentale con fagi iniettati in vena e si è salvato.
L’Università della California ha quindi deciso di finanziare la creazione del Centre for Innovative Phage Applications and Therapeutics, grazie al quale è stato possibile ideare e condurre lo studio attuale.
Occhi puntati sui micobatteri
Per capire come utilizzare al meglio i fagi, gli autori si sono concentrati su una grande famiglia di batteri, chiamati micobatteri, che provocano pericolose infezioni in persone vulnerabili, quali i malati di fibrosi cistica e di altre patologie respiratorie croniche. Alcune di queste specie e, in modo particolare il Mycobacterium abscessus, sono sempre più spesso resistenti agli antibiotici, al punto che – secondo alcune stime – solo negli Stati Uniti vengono ritenuti responsabili di 35.000 decessi all’anno.
L’ostacolo principale all’utilizzo dei fagi, finora, è stato, paradossalmente, la loro grande specificità, perché ognuno è diretto esclusivamente verso un determinato tipo di batterio, e questo ne limita l’efficacia, in situazioni reali, nelle quali convivono decine di varianti dello stesso microrganismo.
I ricercatori, comunque, non si sono dati per vinti e hanno selezionato 20 pazienti (il numero più alto, finora, per questo tipo di sperimentazioni) con malattie gravi e croniche quali la fibrosi cistica, e hanno identificato nel loro organismo 55 ceppi di micobatteri resistenti agli antibiotici, ma per i quali esistevano fagi specifici. A quel punto hanno preparato in laboratorio e somministrato la terapia con i fagi, sia per via endovenosa che in aerosol, o con entrambe le modalità, due volte al giorno per una media di sei mesi, anche se il periodo per alcuni pazienti è stato più lungo e per altri più corto, a seconda della risposta. Quindi, in tutti hanno controllato tanto la sicurezza, quanto l’efficacia.
La terapia appare sicura
Il dato preliminare più confortante è stato quello sulla sicurezza: non è emersa alcuna criticità in nessuno dei partecipanti, e ciò lascia pensare che terapie di questo tipo possano essere somministrate anche a lungo. Quanto all’efficacia, 11 pazienti hanno mostrato un miglioramento dei sintomi o una diminuzione della carica batterica, 5 invece non hanno permesso ai ricercatori di giungere a conclusioni definitive, mentre 4 non hanno risposto alla terapia. In 8 pazienti, infine, sono stati trovati anticorpi neutralizzanti contro i fagi (prodotti dal sistema immunitario), e questo potrebbe spiegare l’insuccesso parziale.
Tutto ciò aiuta a capire la complessità di questo tipo di approccio: molto dipende dal tipo di batterio presente, e dal tipo di fago utilizzato. Entrambi, poi, devono fare i conti con il sistema difensivo dell’organismo, che può reagire in modi differenti. Tuttavia, fanno notare i ricercatori, la sicurezza della terapia, insieme all’evidente efficacia in alcuni pazienti sottoposti alla sperimentazione, giustificano l’avvio di ulteriori studi, finalizzati a delineare un protocollo adattabile e flessibile, da applicare in modo personalizzato.
Uno dei primi passaggi sarà l’ulteriore conoscenza e classificazione dei fagi, in modo da poterli poi riprodurre per via sintetica, in laboratorio, fino ad arrivare a una cura standardizzata e dosabile con precisione. Secondo i ricercatori ne vale la pena, anche perché il freno da parte del sistema immunitario non sembra svilupparsi facilmente. Inoltre, anche per quanto riguarda le vie di somministrazione, sembra ci sia un’ottima flessibilità, e questo potrebbe essere cruciale per ottenere il massimo nelle singole patologie.
I presupposti, in definitiva, sembrano esserci, e i prossimi anni diranno se ciò che ha salvato Tom Patterson salverà anche tanti altri pazienti per i quali non esistono alternative.